Gli occupati part time sono 4.238.000 e rappresentano il 17,9 per cento del totale, dipendenti e indipendenti dei settori pubblico e privato del nostro Paese (Istat, 2023). A questo numero vanno aggiunte altre 212 mila persone, domestici e assistenti familiari che lavorano in media 25-29 ore a settimana (Inps 2022). Nella pubblica amministrazione i part time sono oltre 200 mila (213.872), più dell’80 per cento sono donne.

L’incidenza del part time “involontario”, pari al 57,9%, è la più alta di tutta l’Eurozona. Per definire meglio questa tipologia di precarietà bisogna aggiungere che il 74,2 per cento degli occupati a tempo parziale è donna, una su tre del totale delle lavoratrici.

La retribuzione media annuale è di 11.451 euro e si abbassa ulteriormente nel Mezzogiorno. Quando la condizione dell’orario ridotto convive con la discontinuità della durata del rapporto di lavoro, il salario lordo annuale medio si attesta sui 6.267 euro.

La condizione salariale è il termometro della povertà del lavoro, ma non è il solo indicatore della condizione di precarietà.

Nella patinata discussione che si svolge sulla valorizzazione della flessibilità positiva, necessaria al sistema produttivo ma utile anche alle persone, anche la dimensione del part time rivela una realtà diversa.

Se alcuni lavoratori preferiscono o scelgono il part time come un’opportunità, la realtà evidenzia come per la stragrande maggioranza dei part time involontari le condizioni di estrema flessibilità nell’uso degli orari rendono i lavoratori persone che si devono adattare al ciclo e agli orari delle aziende.

Le diverse forme part time orizzontali, miste, con sospensione ciclica dell’attività spesso rendono difficile ricercare altri lavori per provare a costruire un reddito full time. Inoltre, come emerge anche dall’attività ispettiva condotta dall’Inail, in un rapporto regolarizzato a part time spesso si nasconde un full time irregolare.

Il part time con sospensione ciclica dell’attività su base annua non ha diritto ad alcun ammortizzatore e sostegno per i periodi non coperti da lavoro. L’azione della Cgil e delle categorie ha portato una prima risposta con il riconoscimento nella legge di Bilancio (n. 234/2021) di un bonus una tantum per queste specifiche condizioni a copertura del 2022 e 2023. Il governo non ha voluto prorogare tale misura e non ha aperto confronti come richiesto dal sindacato. Una rivendicazione che la Cgil e le categorie proseguiranno per costruire una soluzione di sostegno stabile alla condizione di precarietà lavorativa, economica e previdenziale che questa forma contrattuale determina.

È un dato di fatto, poi, come la Cgil evidenzia da tempo, il legame tra part time e discriminazione di genere. Il caso più recente è confermato da una sentenza della Cassazione che ha preso in esame il ricorso di un’impiegata part time dell’Agenzia delle entrate che nella selezione interna per il passaggio a una migliore fascia retributiva era stata penalizzata in termini di punteggio rispetto ai colleghi full time.

La Corte nel motivare la sentenza scrive: “Svalutare il part time ai fini delle progressioni economiche orizzontali significa, nei fatti, penalizzare le donne rispetto agli uomini con riguardo ai tali miglioramenti di trattamento economico”. E ancora: “La preponderante presenza di donne nella scelta per il lavoro a tempo parziale è da collegare al notorio dato sociale del tuttora prevalente loro impiego in ambito familiare e assistenziale, sicché la discriminazione nella progressione economica dei lavoratori part time andrebbe a penalizzare indirettamente proprio quelle donne che già subiscono un condizionamento nell’accesso al mondo del lavoro”.

Altra faccia della precarietà è la disuguaglianza che attiene il sistema previdenziale. Se la battaglia della Cgil, delle categorie e dell’Inca condotta nel corso degli anni con un lungo contenzioso e iniziative di mobilitazione ha portato a riconoscere (legge di Bilancio 2021) la contribuzione per i periodi non lavorati dei part time verticali o ciclici sanando un elemento di differenziazione con quelli orizzontali ed equiparando la condizione del privato a quella già esistente nel pubblico, restano aperti ancora molte problematiche.

Il minimale contributivo ai fini del raggiungimento dell’anzianità previdenziale pone gli occupati part time, soprattutto giovani e donne, in una condizione di disuguaglianza. Siamo in presenza di vite lavorative a part time, a poche ore settimanali e con basse retribuzioni, che produrranno pensioni al disotto della soglia minima, per raggiungere le quali serviranno un numero di anni superiore rispetto a chi ha contratti full time (o part time con alte retribuzioni). Per questo continuiamo a rivendicare per i part time, oltre all’introduzione di una pensione di garanzia, il superamento del minimale contributivo ai fini del raggiungimento dell’anzianità previdenziale.

Inoltre, l’effetto dell’inflazione degli ultimi anni ha determinato un innalzamento del minimale contributivo impossibile da raggiungere soprattutto laddove non si alzano i salari. Per questo i rinnovi dei contratti collettivi nazionali di lavoro sono una priorità per tutte e tutti, a partire dalle lavoratrici e dai lavoratori che vivono una condizione di maggiore fragilità.

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