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Martedì 4 novembre, si è svolta l'audizione presso le Commissioni congiunte Bilancio del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati, nell’ambito dell’esame del disegno di legge recante “Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2026 e bilancio pluriennale per il triennio 2026-2028” (A.S. 1689).
Hanno partecipato per la CGIL Christian Ferrari, Segretario confederale CGIL, e Nicolò Giangrande, Responsabile Ufficio Economia CGIL.
Memoria Cgil
La condizione in cui versa il Paese è sotto gli occhi di tutti: il PIL è allo “zero virgola”, in sostanziale recessione negli ultimi due trimestri; da ormai tre anni prosegue – incontrastato – un profondo processo di deindustrializzazione; i salari e le pensioni non hanno recuperato il potere d’acquisto perso negli ultimi anni; l’occupazione cresce solo per gli over 50, mentre si contrae – ed è sempre più precaria – per le nuove generazioni; aumentano le ore di cassa integrazione e le crisi aziendali.
Questa realtà, a quanto pare, non preoccupa affatto il Governo, che anzi festeggia i “formidabili” risultati raggiunti e l’andamento positivo dei conti pubblici, con il plauso della comunità finanziaria nazionale e internazionale. Sono lontani i tempi in cui si sosteneva che l’affidabilità delle agenzie di rating è paragonabile a quella di una cartomante, o quando ci si lamentava che il loro giudizio valesse più del voto dei cittadini.
Ma qui il problema non è la coerenza o meno della presidente del Consiglio, vale piuttosto la pena porsi - e porre - una domanda semplice e diretta: chi sta pagando il miglioramento del quadro di finanza pubblica?
La risposta è inequivocabile: i lavoratori dipendenti e i pensionati, i quali non solo hanno vissuto un brutale impoverimento a causa di una inflazione da profitti lasciata completamente libera di scaricarsi sulle loro spalle, ma hanno anche subìto tutto il drenaggio fiscale conseguente alla mancata indicizzazione dell’Irpef all’inflazione.
Oltre al danno, dunque, anche la beffa.
E ciò che è più insopportabile è che invece di adoperarsi per cancellare questa intollerabile ingiustizia, si tenti in ogni modo – e da più parti – di negare l’evidenza. L’argomento utilizzato è che i benefici fiscali approvati finora avrebbero compensato interamente il fiscal drag.
Una tesi che - se anche fosse fondata - smonterebbe comunque alla radice la propaganda che ha accompagnato fin dall’inizio questa legislatura, svelando come i salari non siano stati per nulla sostenuti e che quanto riconosciuto con una mano è stato sottratto con l’altra, in una mera partita di giro a saldo zero. Le cose, purtroppo, stanno molto peggio di così.
Infatti, le perdite cumulate che, a causa del drenaggio, hanno subìto i salari nell’ultimo triennio sono ben superiori ai vantaggi ottenuti con gli interventi realizzati sull’Irpef, sulla decontribuzione e sulla sua successiva fiscalizzazione.
Si va:
- da -700 euro per un reddito con un imponibile previdenziale da 20.000 euro;
- a -2000 euro per un reddito da 35.000 euro;
- fino a una perdita di oltre 3.000 euro per chi ha un imponibile previdenziale da 55.000 euro.
E, mentre la macchina infernale del fiscal drag – se non verrà disinnescata – continuerà a erodere i redditi fissi ogni anno, neppure le misure contenute nel disegno di legge di bilancio 2026 rimedieranno a questa situazione:
- la riduzione della seconda aliquota dell’Irpef porterà vantaggi - sopra i 28.000 euro di reddito - tra 0 e 440 euro (al massimo un caffè al giorno);
- mentre la tassazione al 5% degli incrementi contrattuali - per i lavoratori fino a 28.000 euro – garantirà un beneficio medio di 126 euro, e solo per il prossimo anno.
Quest’ultima è stata una nostra richiesta, ma come suol dirsi: il titolo del tema che ha provato a scrivere il Governo è giusto, ma lo svolgimento decisamente no, avendo escluso intere fasce di reddito e tutto il pubblico impiego. Oltretutto, le risorse sottratte - silenziosamente - tramite il drenaggio fiscale non solo non sono state restituite, ma non sono state neppure destinate - né lo saranno - alla spesa sociale.
Lo dimostrano - per fare l’esempio più eclatante - i numeri della sanità pubblica, il cui finanziamento - o per meglio dire: il definanziamento - passerà da un rapporto sul PIL del 6,15% il prossimo anno al 5,93% nel 2028, il livello più basso di sempre, un livello – per intenderci – che mette a rischio l’aspettativa di vita delle persone in carne e ossa.
Stesso discorso vale anche per l’Istruzione, per la non autosufficienza, per la casa, per l’intero sistema pubblico dei servizi.
L’altra grande vittima designata dal ritorno alle politiche di austerità è il capitolo della previdenza:
- con l’aumento generalizzato dell’età pensionabile (che colpirà quasi il 99% delle lavoratrici e dei lavoratori);
- con l’azzeramento di ogni forma di flessibilità in uscita (comprese le già insufficienti “opzione donna” e “quota 103”);
- con il totale tradimento della solenne promessa elettorale di superare la Legge Monti/Fornero, che invece viene perfino peggiorata.
Così lavoratrici e lavoratori vengono colpiti su tutti e tre i fronti che li riguardano: il salario diretto, il salario indiretto o sociale, le pensioni.
Mentre agli altri si garantiscono flat tax, condoni, sanatorie, e tutto il resto che sappiamo, per poi meravigliarsi se – come sembra – l’evasione fiscale e contributiva è tornata a crescere.
A questo punto della disamina, qualcuno potrebbe dare per scontato che le risorse drenate a chi vive di reddito fisso siano state almeno destinate alle politiche industriali e di sviluppo.
Non è avvenuto nemmeno questo, come dimostra - nella maniera più plastica - il numero “zero” a fianco della voce “Investimenti pubblici” indicata nel Documento Programmatico di Bilancio.
La verità è che il maggior gettito derivante dal fiscal drag è stato utilizzato per fare ancora più austerità rispetto a quella richiesta dalla Commissione europea, e con un preciso obbiettivo politico: attivare – già dal 2026 – la Clausola di salvaguardia Nazionale del Patto di Stabilità, in modo da poter scomputare le spese per la Difesa - indebitando ulteriormente il Paese - per finanziare una folle corsa al riarmo (+23 miliardi solo nei prossimi tre anni), che non può portare nulla di buono.
Queste sono le ragioni della crescita anemica che - se si prosegue su questa strada - ci toccherà addirittura rimpiangere nei prossimi anni: quando i dazi americani dispiegheranno tutti i loro nefasti effetti; e quando si esauriranno i fondi del PNRR, senza i quali saremmo in piena recessione. Un PNRR che, peraltro – tra ritardi e continue rimodulazioni – vede sempre più allontanarsi gli obiettivi della riduzione delle diseguaglianze sociali e dei divari territoriali che ne stavano alla base.
Cosa bisogna ancora aspettare per cambiare una linea di politica economica che - per autocertificazione dello stesso Governo – avrà nel 2026 un impatto sulla crescita, e sulle condizioni delle persone, pari a zero?
Quali ulteriori evidenze servono per comprendere che: senza rilanciare la domanda interna, aumentando salari e pensioni; senza una politica industriale che sostenga la transizione tecnologica, energetica ed ecologica del nostro sistema produttivo; senza rilanciare il Mezzogiorno (non basta la Zes unica, che è uno strumento non una strategia per il Sud), e senza rafforzare un welfare che sta diventando sempre meno pubblico e meno universalistico, non saranno solo le persone che rappresentiamo a essere penalizzate, ma tutto il Paese?
Sono queste le ragioni per cui – a nostro giudizio - va cambiata una Manovra di bilancio palesemente inadeguata, ingiusta e controproducente.
Per questo abbiamo manifestato in piazza san Giovanni lo scorso 25 ottobre e per questo proseguiremo la nostra mobilitazione a supporto delle richieste:
- la restituzione del fiscal drag e la sua neutralizzazione, attraverso l’indicizzazione all’inflazione di scaglioni, detrazioni, trattamento integrativo, Isee ed esenzioni, come avviene non in Unione Sovietica, ma negli Stati Uniti di Trump;
- il rinnovo di tutti i contratti nazionali di lavoro – pubblici e privati – per difendere e rafforzare il potere d’acquisto;
- il rafforzamento e l’estensione della quattordicesima, e la piena rivalutazione delle pensioni;
- blocco dell’aumento automatico dell’età pensionabile per tutte e tutti, una maggior flessibilità in uscita e una pensione di garanzia per precari e discontinui;
- vere politiche industriali per i settori manifatturieri e per i servizi, per innovare il nostro sistema produttivo, difendere l’occupazione e creare nuovo lavoro di qualità, tutela della salute e della sicurezza sul lavoro;
- contrasto alla precarietà e lavoro povero.
Un tema, questo, che deve salire in cima alla lista, se vogliamo fermare l’emigrazione di 100.000 ragazze e ragazzi che ogni anno cercano un lavoro libero e dignitoso fuori dai nostri confini nazionali.
Per fare tutto questo ci sono due precondizioni ineludibili:
- andare a prendere i soldi dove sono (profitti, extra profitti, grandi ricchezze, evasione fiscale), anche chiedendo un contributo di solidarietà – come abbiamo proposto – all’1% della popolazione più ricca, per finanziare politiche a beneficio del restante 99%;
- rinunciare ad una insostenibile corsa al riarmo che punta a convertire la nostra e quella europea in un’economia di guerra, e che sottrarrà una ingentissima mole di risorse (quasi 1.000 miliardi di euro per l’Italia, se si vuole davvero raggiungere il 5% del PIL entro il 2035) alle vere priorità economiche e sociali del Paese.
Con meno di questo, non riusciremo a liberarci dalla trappola del combinato disposto “austerità e riarmo”. Un binomio che sintetizza perfettamente la Manovra di bilancio in discussione e, temiamo, anche quelle a venire.





