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Il periodo delle scissioni sindacali si protrasse per circa due anni, dall’estate del 1948 alla primavera del 1950. La prima componente a lasciare la CGIL fu quella cattolica che nell’ottobre 1948 costituì la Libera CGIL, guidata da Giulio Pastore; dopo alcuni mesi, nel giugno 1949, fu la volta delle componenti socialdemocratica e repubblicana che dettero vita alla FIL (Federazione Italiana dei Lavoratori). Il percorso terminò con la nascita dell’Unione Italiana del Lavoro (UIL, 5 marzo 1950) e della Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori (CISL, 1° maggio 1950).
La fase successiva alle scissioni fu una delle più difficili per il sindacato italiano, segnato da profonde divisioni ideologiche. Inoltre la repressione poliziesca, condotta dalla famigerata “Celere” potenziata dal Ministro degli Interni Mario Scelba, causò la morte di decine di lavoratori durante manifestazioni e scioperi. La città simbolo di questi “eccidi proletari” fu Modena dove il 9 gennaio 1950 morirono sei operai; ma la maggior parte delle vittime si ebbe in piccoli paesi del Sud (tra gli altri Melissa, Montescaglioso, Torremaggiore, Celano); le regioni più colpite furono la Sicilia e la Puglia.
La CGIL provò a uscire dall’isolamento attraverso una proposta politica forte, lanciata al II Congresso di Genova (1949) e nota con il nome di “Piano del Lavoro”. Nelle intenzioni dei promotori il Piano, che prevedeva la nazionalizzazione dell’energia elettrica e un programma esteso di lavori pubblici in edilizia e agricoltura, doveva sollecitare le classi dirigenti sul tema delle cosiddette “riforme di struttura”. Dopo il Piano, Di Vittorio lanciò al III Congresso di Napoli (1952) una nuova proposta “forte”, cioè l’idea di uno Statuto dei diritti dei lavoratori.
Il clima politico del centrismo democristiano non era tuttavia favorevole a questo tipo di iniziative. Lo dimostrarono nel 1953 lo scontro frontale sulla nuova legge elettorale maggioritaria (la cosiddetta “legge truffa”) e nel 1954 la dura vertenza sul conglobamento (l’unificazione di alcune voci salariali), che si concluse con un accordo separato senza la CGIL. Questa raggiunse il punto più basso del consenso con la sconfitta della FIOM nelle elezioni alla Fiat per le Commissioni Interne (1955), dovuta non solo alla politica repressiva della direzione aziendale, ma anche alla forte centralizzazione delle decisioni che aveva contraddistinto la CGIL nel dopoguerra. All’indomani di quella cocente sconfitta, Di Vittorio pronunciò nel Direttivo confederale una famosa autocritica, destinata a mutare la politica rivendicativa dell’organizzazione.