In riferimento alla recente approvazione definitiva in Senato della legge italiana sull’Intelligenza Artificiale, evidenziamo alcuni impatti diretti che la stessa avrà inevitabilmente sulla filiera delle telecomunicazioni.
Tra eccessive deleghe al Governo, tempi di attuazione lenti e risorse insufficienti, il primo aspetto da sottolineare riguarda l’indicazione per la Pubblica amministrazione di “privilegiare” soluzioni basate su data center collocati sul territorio nazionale.
Un’indicazione generica. Manca infatti l’auspicato obbligo di scegliere infrastrutture fisicamente ubicate in Italia (scelta che sarebbe sembrata naturale per un Governo che afferma di fondare le sue radici sulla promozione del “made in Italy”) quando è evidente che la richiesta di “prossimità” è l’elemento che può maggiormente favorire investimenti in infrastrutture certificate, specie per progetti che incrociano dati sensibili (osservazione del territorio, difesa civile, ecc).
Poiché comunque gli operatori Tlc gestiscono infrastrutture critiche, questi si troveranno, alla luce dei nuovi provvedimenti, ad affrontare standard di sicurezza più severi e controlli più stringenti (il provvedimento assegna un ruolo centrale all’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale (Acn) come autorità competente).
Il che si traduce per le telco, che già utilizzano sistemi di AI per ottimizzare le reti, automatizzare i processi e migliorare la customer experience, in ulteriori investimenti, necessari per garantire il rispetto dei principi di trasparenza e tracciabilità fissati dal nuovo quadro normativo, che discende direttamente dalla cornice di riferimento europea (AI ACT).
Ed è qui che la montagna ha partorito il topolino: a fronte di annunci roboanti sulla portata storica della già menzionata legge, la stessa stanzia “fino a un miliardo di euro”, ma non solo per l’AI: le somme riguardano anche big data, telecomunicazioni, 5G, cybersicurezza e tecnologie quantistiche.
Un approccio ancora una volta a pioggia, general generico, che non punta realmente allo sviluppo di questa tecnologia, e che soprattutto mette a disposizioni risorse risibili se confrontate a quelle di Paesi come la Francia (10 miliardi solo per l’AI fino al 2029) o la Germania (5 miliardi entro il 2025).
Questo ovviamente stride con l’idea di un reale sviluppo tecnologico, che, se ben supportato porterebbe enormi benefici economici all’intera filiera.
Va sottolineato il fatto che l’Intelligenza Artificiale rappresenta oggi una delle forze trasformative più significative per l’intero ecosistema delle telecomunicazioni. Una forza in grado di incidere in modo profondo e strutturale sullo sviluppo ed esercizio delle reti, e dunque potenzialmente in grado di aiutare il settore in un momento complesso della sua evoluzione che, con l’adozione generalizzata dell’AI, procede verso una profonda revisione architetturale.
Secondo alcuni studi recenti (McKinsey, GSMA Intelligence e BCG), l’adozione sistemica e su larga scala dell’intelligenza artificiale nelle telecomunicazioni sarebbe infatti in grado di determinare, entro i prossimi 5 anni, un incremento dei margini operativi globali nel settore compreso tra il 15% e il 25%.
Una sfida, questa, che alla luce di quanto sopra sembra dunque già persa per gli operatori italiani.
Vi è poi il tema dell’impatto sull’occupazione che andrebbe affrontato in maniera lungimirante e sistemica. Perché, se da un lato la minore esigenza di mano d’opera per l’espletamento dei processi di gestione della rete con l’avvento dell’AI è un fatto conclamato, il dato di un evidente decremento dell’occupazione andrebbe controbilanciato con l’acquisizione da parte delle lavoratrici e dei lavoratori di competenze software e di progettazione di reti e infrastrutture in grado di compensare le minori esigenze nei processi più tradizionali.
Un investimento, anche in questo caso, che necessiterebbe di una visione di sistema in grado di supportare lo sviluppo di reali politiche industriali. Cosa di cui purtroppo, continuiamo a non vedere neanche l’ombra.