Analisi della situazione

Secondo le stime di Exton Consulting su dati Istat, tra i lavoratori autonomi “puri” senza dipendenti (3.269.000,00), le donne sono circa un milione, di cui poco meno di mezzo milione sono anche mamme.
Con riferimento alle lavoratrici parasubordinate e atipiche del circa 1 milione di lavoratori iscritti alla gestione separata come collaboratori coordinati e continuativi nel 2021, 371.598 sono donne. Il numero dei collaboratori iscritti alla gestione separata diminuisce tendenzialmente a partire dal 2015 e diminuiscono in modo più consistente le donne : le donne erano infatti nel 2015 il 39,1% tra i collaboratori e passano nel 2021 al 37,3%. Queste variazioni sono da legare, oltre che a dinamiche del mercato del lavoro, anche a interventi del legislatore e alle continue variazioni dell’aliquota di contribuzione, che ha raggiunto per i collaboratori un livello analogo a quello del lavoro dipendente e perciò maggiore rispetto ai professionisti. Infine, gli effetti della pandemia si sono fatti sentire soprattutto sui collaboratori, diminuiti infatti di circa 16 mila unità nel 2020 rispetto al 2019, con un calo maggiore dell'occupazione femminile.

Per le lavoratrici autonome, soprattutto quelle non appartenenti ad ordini professionali, ad oggi, nonostante la legge sia intervenuta in parte a regolare la maternità stessa, le stesse hanno notevoli difficoltà quando decidono di avere figli. Uno degli elementi principali è che la legge non fa mai riferimento a un obbligo di astensione dal lavoro, come si prevede per esempio per le lavoratrici dipendenti, ma a una mera facoltà, il che porta queste professioniste a lavorare anche durante il periodo di congedo, per non perdere la clientela.

Con riferimento alla pandemia, i dati pubblicati da ISTAT mettono in evidenza come il Covid-19 abbia fatto ricadere i propri effetti in maniera importante anche sulle componenti di lavoro autonomo: le donne freelance diminuiscono del 2,5% contro il -1,4% degli uomini.

Anche il tema del gender pay gap si presenta molto radicato e diffuso: per le libere professioniste il dato è allarmante, aggirandosi intorno al 45%. Un fenomeno che presenta dinamiche assai complesse e che aumenta con il progredire dell’età anagrafica: fino ai 30 anni il gap retributivo, rispetto ai colleghi maschi, è di circa 1.900 euro annui, tra i 40 e i 50 anni di 17 mila euro, tra i 50 e i 60 anni di oltre 22 mila euro. Un divario significativo che si riscontra anche a livello nazionale e territoriale, dove la differenza reddituale uomo/donna è pari al 46% nelle regioni del Nord, al 47% nelle regioni del Centro, e al 43% nel Sud Italia. Se guardiamo la distribuzione dei tipi di rapporto di lavoro rispetto al genere si evidenzia come siano poche le donne tra gli amministratori di società, sindaci, ecc. (136.725 a fronte di 424.306 uomini) e come invece siano maggioritarie in quasi tutte le altre tipologie. si evidenzia anche un importante gender pay gap, in alcuni casi con un reddito delle donne pari alla metà di quello degli uomini, per arrivare a un dato medio complessivo che arriva a un differenziale del 45% di reddito in meno per le donne.

Nelle tipologie di rapporto in cui vi è il maggior addensamento di donne, troviamo anche le attività a più bassa professionalità e l'abuso dell'utilizzo della collaborazione, oltre alle minori retribuzioni. Il tema del minor reddito, spesso inferiore al minimale INPS, incide pesantemente sulla situazione pensionistica delle donne iscritte alla gestione separata che non si vedono riconosciuti dal punto di vista contributivo gli interi periodi lavorati, e sulle prestazioni di assistenza.

Obiettivi

Obiettivo prioritario che perseguiamo è quello di tenere in considerazione anche il lavoro parasubordinato e autonomo, garantendo tutele e diritti anche alle lavoratrici che svolgono la propria attività in forma non dipendente, migliorandone la qualità del lavoro e della vita.

Per la CGIL è necessario:

  • Agire e rafforzare la contrattazione sociale e territoriale, strumento importante per la contrattazione di genere, e che deve essere più e meglio agito per rispondere alle tante peculiarità e difficoltà del mondo del lavoro precario, autonomo e atipico;
  • Garantire un accesso ai servizi (nidi, materne, servizi agli anziani, etc…) ed evitare le condizioni escludenti o comunque penalizzanti all’interno dei bandi di assegnazione (spesso condizioni legate al tempo-lavoro o alla contribuzione versata o alla presenza a casa), tenendo conto delle specificità del lavoro parasubordinato e autonomo, dello stato di disoccupazione e del lavoro in smart working (che per le lavoratrici autonome o parasubordinate è spesso LA modalità di lavoro);
  • Porre attenzione al reddito e/o compenso (e alla sua certezza) e alla determinazione delle tariffe. Qui si inserisce la discussione sull’equo compenso per i lavoratori autonomi, su cui la CGIL, insieme a Nidil e APIQA ha intrapreso un percorso, anche all’interno della Consulta del Lavoro autonomo del CNEL, volto a ribadire la necessità di ampliamento della platea dei destinatari e dell’individuazione di parametri economici certi e condivisi anche con le associazioni di rappresentanza e le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative;
  • Pieno riconoscimento delle tutele sociali per le lavoratrici autonome e parasubordinate  Sulla maternità ad esempio, prevedere strumenti e meccanismi maggiormente tutelanti (laddove l’astensione dal lavoro è una mera facoltà) per garantire continuità di reddito in una fase di calo dello stesso e sostegno nella fase di rientro, individuando uno strumento di sostegno al reddito utile a tutelare le lavoratrici al rientro dalla maternità obbligatoria;
  • Sulla formazione: deve essere affermata come un diritto per tutte le donne, anche quelle che un orario di lavoro o un lavoro subordinato non ce l’hanno, rendendo concrete anche le misure di politica attiva legate al sostegno al reddito per le quali è previsto per legge un obbligo formativo in costanza di ammortizzatore (DisColl e Iscro). Andrebbe monitorata in tal senso anche l'applicazione (e se viene applicato) dell'art. 10 della legge 81/17 “Accesso alle informazioni sul mercato e servizi personalizzati di orientamento, riqualificazione e ricollocazione", in quanto eventuali buone pratiche potrebbero rappresentare un modello utile per costruire una proposta coerente di formazione in una prospettiva di genere;
  • Utilizzare le risorse (10,5 milioni di euro) presenti nel fondo della Gestione Separata e dedicate precisamente alla formazione. Trattandosi di un fondo che residua da risorse riservate a tutti gli iscritti alla Gestione separata non pensionati, esso va destinato in via proporzionale;
  • Per favorire l’accesso delle professioniste alle occasioni di formazione e aggiornamento, vanno dedicate a livello regionale specifiche risorse del FSE, su progetti di formazione e riqualificazione che tengano conto del genere e che possano supportare gli autonomi percorsi di crescita professionale;
  • Sulla previdenza, prevedere correttivi previdenziali che rendano più equo e solidaristico il sistema pubblico quali la pensione contributiva di garanzia per le lavoratrici autonome e parasubordinate iscritte alla gestione separata;
  • Porre attenzione ai rischi di salute fisica e psicosociale legati all’overload di lavoro a cui sono spesso sottoposte le lavoratrici autonome (con impegno di orario che supera anche le 40 ore settimanali, come dimostrano i dati anche dell’Inchiesta Professionista Oggi della Fondazione Di Vittorio), schiacciate anche nel boundary, nel confine tra spazio lavorativo e spazio domestico;
  • Promuovere la riprogettazione delle città e dei servizi pubblici per migliorare la qualità della vita e la sicurezza delle lavoratrici autonome (gender urban planner: tempi di vita, servizi, infrastrutture, mobilità, spazi pubblici e sicurezza), con un’attenzione specifica anche a percorsi di co-working cittadini, anche in risposta all’isolamento causato dallo smart working.


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