"Nel 2019, i salari medi italiani, nella statistica OCSE, sono pari a circa 30 mila euro lordi annui, in lieve crescita rispetto al 2000, ma addirittura in diminuzione rispetto al 2007. Il divario rispetto agli altri paesi non solo è molto ampio, ma si è andato ancora allargando tra il 2007 e il 2019, sia in cifra totale che come dinamica. I salari annui tedeschi sono infatti cresciuti in modo consistente negli anni più recenti (42.421 euro nel 2019), così come in Francia (39.099 euro) e nelle altre realtà prese in esame; simile a quello italiano si presenta invece il caso della Spagna", è quanto fa sapere il Presidente della FDV, Fulvio Fammoni illustrando il report della Fondazione Di Vittorio che mette a confronto i salari del lavoro dipendente in Italia con quelli di cinque delle maggiori economie dell’eurozona."Questo divario - prosegue - non si riduce neanche nelle retribuzioni nette relative ad alcune tipologie familiari considerate dall’OCSE. La pressione fiscale sui salari e il cuneo fiscale sul costo del lavoro non producono alcun riequilibrio per l’Italia. Questa diversità negativa per i salari dei lavoratori del nostro paese non è attribuibile all’orario di lavoro che risulta fra i più alti di quelli presi in esame. E’ invece identificabile - spiega Fammoni - in altri fattori della ricerca: nella composizione del nostro mercato del lavoro, con un addensamento dell’occupazione nelle qualifiche medio-basse più elevato rispetto alla media dell’eurozona, in progressivo peggioramento negli ultimi anni. Nei casi di precarietà (il tempo determinato con discontinuità è molto aumentato) e in relazione all’utilizzo di un part time involontario che in Italia, a parità di lavoro prestato, risente di una penalizzazione salariale rispetto alla media dell’eurozona (70,1% Italia/83,6% eurozona) che spiega una parte importante dell’involontarietà. Nel 2018, nel caso più svantaggiato (tempo determinato, part time con discontinuità) che riguarda circa 1 milione e 700mila lavoratori, il salario effettivo è più basso dei 6mila euro annui (5.641 euro). Complessivamente, oltre 5 milioni di lavoratori arrivano solo a 10mila euro annui. Anche i dati del Ministero dell’Economia e delle Finanze (anno imposta 2018) confermano questa tendenza, rilevando come 15,6 milioni di persone (79,7% del totale) abbiano dichiarato solo fino a 29mila euro di reddito da lavoro dipendente e da fabbricato, cioè meno del salario lordo medio annuale".Per il presidente della FDV si tratta di "un insieme di elementi che spiegano come il divario negativo italiano su sviluppo e produttività non è riconducibile né a quantità di ore lavorate né alle retribuzioni. Il problema - sottolinea - risiede soprattutto in scelte di anni volte a recuperare competitività di costo attraverso moderazione salariale, che producono bassa crescita, ristagno della base produttiva e dell’occupazione. Politiche di governi e parte delle imprese che hanno disincentivato investimenti, determinato scarsa innovazione e inciso negativamente sulla domanda aggregata tramite minori consumi. Nei fatti, la scarsa crescita delle retribuzioni di questi anni, è stata uno degli effetti ma anche causa, della stagnazione italiana".Infine, secondo Fammoni, "nel 2020 la pandemia e le conseguenti ricadute produttive ed occupazionali, peggioreranno questo quadro. Nonostante due fondamentali fattori di tutela, dell’occupazione e del salario, che devono essere confermati ed estesi, come il blocco dei licenziamenti e gli ammortizzatori sociali, il dato dell’occupazione peggiorerà, così come la media retributiva. Un riequilibrio dei salari italiani - insiste - è dunque necessario, non solo come risposta concreta ai problemi delle persone ma come elemento essenziale della competitività futura del Paese. Può essere affrontato in più modi: un intervento sulla quantità ma anche sulla qualità dell’occupazione che arresti il continuo incremento del lavoro povero; una nuova fase della contrattazione che rinnovi CCNL da troppo tempo bloccati, una riforma fiscale che recuperi risorse vero le retribuzioni. Occorrerà - conclude Fammoni - agire su tutte queste leve se si vuole dare fiducia nel futuro, elemento essenziale dello sviluppo, collegandole all’utilizzo degli investimenti con l’accesso ai fondi europei, alla trasformazione del nostro modello produttivo e alle necessarie risorse per far ripartire i consumi".Scarica il report completo