Si è tenuta oggi, martedì 16 maggio, presso la 10^ commissione del Senato (Affari sociali, sanità, lavoro pubblico e privato, previdenza sociale) l’audizione sul disegno di legge n. 685 (Conversione in legge del decreto-legge 4 maggio 2023, n. 48 recante misure urgenti per l’inclusione sociale e l’accesso al mondo del lavoro). 

→ L'intervento di Maurizio Landini

Di seguito riportiamo il testo della memoria consegnata al termine dell’audizione e un commento articolato del Decreto Legge elaborato, a partire dal testo della memoria, con il contributo di tutte le Aree della struttura nazionale.


Premessa
Il provvedimento in questione, nonostante la presentazione mediatica che ha preceduto la pubblicazione in Gazzetta ufficiale, non risponde alle esigenze che il mondo del lavoro ha espresso in questi mesi. Insieme a norme che peggioreranno le condizioni economiche e normative delle fasce più deboli, a partire da chi è in povertà assoluta, ritroviamo delle risposte parziali alle nostre piattaforme unitarie, a partire da quella sul fisco. Infatti, si reputa assolutamente insufficiente l’intervento una tantum sul taglio del cuneo, alla luce del forte impatto che l’inflazione sta provocando sul lavoro dipendente. Soprattutto se lo si contrappone all’incremento dei salari.
Per queste ragioni si ritengono necessarie delle modifiche volte, da una parte, a rendere strutturali alcune misure, dall’altra a cambiare radicalmente le misure sulla precarietà e sulla povertà.

Capo I - Nuove misure di inclusione sociale e lavorativa
Le disposizioni contenute nel Capo I del D.L. n. 48/2023 danno seguito a quanto già previsto con la Legge di Bilancio 2023: l’abrogazione del Reddito di Cittadinanza, quale misura di contrasto alla povertà universale e di reddito minimo presente in tutti i paesi dell’Unione Europea, e l’introduzione di una misura categoriale che discrimina le famiglie in condizione di bisogno in base a criteri che prescindono dalla situazione reddituale e patrimoniale. Si afferma così una nuova frontiera della disuguaglianza nel nostro Paese: l’adozione di politiche ineguali verso persone in uguale condizione di difficoltà economica.

Queste disposizioni contraddicono, oltre ai principi fondanti di un sistema di welfare universale, quanto affermato a gennaio dalla Raccomandazione approvata dal Consiglio dell’Unione Europea, nonché quanto riportato nella Risoluzione sul reddito minimo adottata a marzo dal Parlamento europeo in cui si sottolinea come sia necessario aumentare gli sforzi per sostenere “le persone che non dispongono di risorse sufficienti”.

La creazione di un doppio binario che distingue chi è ritenuto meritevole di ricevere un sostegno economico e di essere preso in carico per l’attivazione di percorsi di inclusione sociale e lavorativa, da chi è ritenuto colpevole della propria condizione e, pertanto, è sostenuto in misura minore ed esclusivamente se partecipa ad attività di formazione e per un tempo limitato, non tiene in alcuna considerazione le caratteristiche della povertà come fenomeno complesso, che richiede una pluralità di risposte e di interventi, né tiene in alcuna considerazione l’esistenza del lavoro povero. Il sistema delineato dalle due nuove misure esclude i lavoratori poveri, tra i 18 e i 59 anni che non appartengano a famiglie con minori, disabili o over 60. Un giovane precario di 30 anni, pur in possesso dei requisiti richiesti, non riceverà alcun sostegno.

A questa distinzione discriminatoria di fondo, si aggiungono modalità di attivazione lavorativa rivolte ai beneficiari di entrambe le misure, che denotano sia la totale noncuranza verso la qualità del lavoro che si vuole promuovere, sia l’ulteriore riduzione del perimetro pubblico del sistema di attivazione lavorativa con una pluralità di disposizioni che promuovono l’attività di soggetti privati per l’intermediazione e per la formazione.

Gli articoli del Capo I, dunque, danno seguito all’inaccettabile retorica della povertà come colpa individuale e non come responsabilità collettiva della società che l’ha generata e cui spetta il dovere di mettere in campo un’azione integrata di politiche pubbliche per rimuoverla.

Politiche pubbliche che devono partire dalla definizione di una vera misura di contrasto alla povertà che sia universale e che prenda in carico tutta la popolazione in condizione di vulnerabilità – superando, quindi, il doppio binario proposto dal decreto - attraverso sia un idoneo sostegno economico sia l’attivazione di tutti gli interventi e i servizi pubblici (abitativi, educativi, assistenziali...) necessari a rimuovere le cause della povertà.
Le famiglie devono essere accompagnate dall’infrastruttura sociale pubblica dei territori in programmi personalizzati di inclusione sociale e lavorativa, che tengano conto delle specificità del nucleo e dei suoi bisogni, che non siano penalizzanti o vessatori, e che diventino strumenti di miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro attraverso percorsi qualificati e qualificanti.

Non serviva abrogare il Reddito di Cittadinanza, ma correggerne le criticità per migliorarlo (eliminare le penalizzazioni per famiglie numerose e con minori, e le discriminazioni per stranieri, rivedere la presa in carico, cancellare le clausole punitive...). Non si combatte la povertà crescente riducendo le risorse, ma stanziandone di aggiuntive per potenziare la rete dei servizi pubblici dei territori, a partire dalle dotazioni organiche.

Capo II - Interventi urgenti in materia di rafforzamento delle regole di sicurezza sul lavoro e di tutela contro gli infortuni, nonché' di aggiornamento del sistema di controlli ispettivi
Si tratta di interventi minimi ma del tutto insufficienti a dare risposte ai problemi che sisono generati sul versante della salute e della sicurezza. Non hanno avuto riscontro le questioni che riguardano l’aggiornamento delle tabelle INAIL di indennizzo del danno biologico in capitale e in rendita; la sorveglianza sanitaria dei lavoratori domestici; l’adeguamento dei limiti di età per l’assegno di incollocabilità erogato dall'INAIL e le assunzioni di medici all'INAIL.
Senza un adeguato stanziamento di risorse e in assenza di stringenti interventi normativi non si sono fatti passi nella direzione necessaria.
È assente, infatti, una strategia di rafforzamento degli istituti che assicurano l’attività ispettiva, a partire dall’INL e per arrivare ai servizi di prevenzione e protezione della sanità territoriale, e non si dà riscontro alla piattaforma unitaria di CGIL CISL UIL.
Inoltre, sono assenti interventi utili al rispetto dell’applicazione dei contratti collettivi di lavoro anche attraverso l’estensione di alcune previsioni del codice dei contratti pubblici al settore privato.
Nel nuovo codice appalti si persegue inoltre la logica del subappalto a cascata che determina riflessi sulla salute e sicurezza per la compressione dei costi.
Lo stesso tema della precarietà per come incide sulla qualità del lavoro ha impatto sulla sicurezza e gli interventi previsti nel presente decreto sui contratti a termine e voucher vanno nella direzione contraria.

Capo III - Ulteriori interventi urgenti in materia di politiche sociali e di lavoro
Le misure in materia di lavoro nel decreto sono varie ed articolate, ma non costituiscono un intervento coerente e adeguato rispetto alla necessità di contrasto alla precarizzazione del mercato del lavoro che ha certamente rallentato la crescita del Paese negli ultimi anni, oltre che indebolito la condizione dei lavoratori.

Si persegue invece la logica del lavoro a termine, di accondiscendenza alle richieste di flessibilità delle imprese, anziché pensare di operare una stretta sulle forme più precarie, come il lavoro a chiamata o il lavoro autonomo occasionale o ricondurre i tirocini extracurriculari a esperienze esclusivamente formative, limitate nella possibilità di utilizzo, contrastando gli abusi.

Possono essere considerate positive le misure relative al Fondo Nuove Competenze e l’intervento sui contratti di espansione, ma, per gli effetti che determineranno, costituiscono interventi gravi e pericolosi quelli sui contratti a termine, quelli in materia di semplificazione in materia di informazioni e obblighi sul rapporto di lavoro e l’intervento che amplia le possibilità di utilizzo del lavoro occasionale nel settore turistico e termale.

L’intervento sui contratti a termine mantiene anzitutto due previsioni negative della normativa già esistente: la causale al 12° mese, anziché all’inizio del contratto, e nessun obbligo di stabilizzazione, negando in questo modo anche il reiterato richiamo europeo alla necessaria temporaneità e limitatezza dei contratti a termine.
Saltano le causali per legge (eccetto quella per sostituzione) e la loro definizione viene rinviata alla contrattazione collettiva di cui all’art. 51. Pur affidando un ruolo alla contrattazione, senza un intervento prioritario della legge o della contrattazione nazionale si rischia un sistema totalmente deregolato. Il punto peggiore è la previsione per la quale in assenza della contrattazione le causali possono essere definite fra le parti, fino al 30 aprile 2024. Nei fatti siamo di fronte a una liberalizzazione dei contratti a termine fino a 24 mesi, a una individualizzazione spietata del rapporto che nei fatti sminuisce se non pregiudica la stessa efficacia della contrattazione.

L’intervento sull’eliminazione di alcuni obblighi informativi che vengono affidati alla contrattazione collettiva e sottratti alla responsabilità di informativa dei singoli datori di lavoro è un arretramento non condivisibile; segnaliamo in particolare la preoccupazione per l’abrogazione degli obblighi informativi sulla prevedibilità del rapporto di lavoro (articolo 1 d.lgs. n.152 / 1997 comma 5 bis lettera p). È quello che introduceva dei limiti ai rapporti intermittenti, in particolare rispetto alla prevedibilità delle condizioni di lavoro che fu ritenuto un punto qualificante della direttiva e del decreto. Le stesse informazioni non possono essere date dalla contrattazione collettiva poiché attengono al contratto individuale e quindi sottrarre questa previsione alla norma ridurrà la tutela e il possibile contrasto ai contratti di lavoro a zero ore.
Particolarmente grave la riscrittura della norma che prescrive gli obblighi informativi solo in presenza di sistemi ‘integralmente’ automatizzati e specifica che tali obblighi non si applicano ai sistemi protetti da segreto industriale e commerciale. Tali obblighi erano stati introdotti con il cosiddetto Decreto Trasparenza n.104/2022 in fase di recepimento della Direttiva Europea sulle condizioni di lavoro eque, trasparenti e prevedibili e aprivano una via importante verso la trasparenza obbligatoria nel caso di utilizzo di sistemi di monitoraggio automatizzati, attribuendo una valenza importante al concetto di trasparenza algoritmica, fermi restando i vincoli dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori.
La norma aveva permesso l’avvio anche di contestazioni per inadempimenti, come avvenuto per il ricorso contro Uber Eats Italy, attivato dalla nostra Organizzazione sindacale.
Il nuovo decreto ha riportato la situazione decisamente indietro. In un tempo in cui è sempre più diffuso l’utilizzo di sistemi algoritmici e l’Europa stessa si muove per rendere la trasparenza l’elemento cardine del loro utilizzo, il Governo decide di fare un passo indietro garantendo i datori di lavoro, accettando di non contrastare l’opacità dell’algoritmo e privando lavoratori e le loro rappresentanze di uno strumento essenziale per esercitare diritti.

In aggiunta, la norma di ampliamento del lavoro occasionale nei settori termale e turistico. Non occorre spiegare quanto questa scelta sia sbagliata e contraria alla necessità di investire sul lavoro di qualità e dignitoso. L’ampliamento dei limiti di utilizzo per singolo datore di lavoro, innalzati a 15.000 euro aumenterà il ricorso al lavoro occasionale a scapito del lavoro stagionale e contrattualizzato, impoverendo e svilendo le professionalità di settori già fortemente precarizzati.

Infine, segnaliamo la delicatezza della deroga introdotta sul lavoro marittimo: riteniamo a tal proposito necessari percorsi formativi agevolati per intervenire a monte della carenza di personale, nonché interventi volti ad evitare dumping salariale tra lavoratori comunitari ed extracomunitari.

Capo IV – Misure a sostegno dei lavoratori e per la riduzione della pressione fiscale
Il testo, infine, regolamenta anche la decontribuzione, così come anticipata già nel DEF 2023: per ridurre il cuneo contributivo, lato lavoratore, stanzia circa 3,5 miliardi derivanti dal minor deficit previsto per il 2023 rispetto a quanto programmato nella scorsa Legge di Bilancio. Potendo utilizzare esclusivamente risorse per il 2023 il provvedimento è temporaneo, e dispiegherà i suoi effetti da luglio a dicembre, con la necessità di essere rifinanziato del tutto (non vi sono poste permanenti di bilancio a questo fine). Manca, in sostanza, un provvedimento che renda strutturale questo taglio.

Il provvedimento, in sé, avrà l’effetto di incrementare, solo per una parte dei mesi di quest’anno, il reddito netto di 18 milioni di lavoratori dipendenti, tuttavia, è bene contestualizzare questa azione di decontribuzione nella programmazione di politica economica di questo Governo. La redistribuzione della ricchezza non può essere operata per via fiscale; per tale via essa può solo essere corretta. La distribuzione, infatti avviene principalmente in quella che si definisce “primaria” o “da mercato”, ovvero tra capitale e lavoro, nella contrattazione. Ebbene, nel DEF 2023 viene esplicitata in questo modo la motivazione alla base di questo intervento di alleggerimento fiscale: “(Si prevede) un taglio dei contributi sociali a carico dei lavoratori dipendenti con redditi medio-bassi di oltre 3 miliardi per quest’anno. Ciò sosterrà il potere d’acquisto delle famiglie e contribuirà alla moderazione della crescita salariale. Unitamente ad analoghe misure contenute nella legge di bilancio, questa decisione testimonia l’attenzione del Governo alla tutela del potere d’acquisto dei lavoratori e, al contempo, alla moderazione salariale per prevenire una pericolosa spirale salari-prezzi. (DEF - Programma di Stabilità, pag. VIII)”. Ovvero questo taglio d’imposta è effettuato per evitare che crescano i salari. Il Governo ha quindi il preciso obiettivo di evitare gli incrementi salariali e contrattuali e a questo fine utilizza risorse pubbliche, quelle risorse pubbliche che potrebbero, anzi dovrebbero, essere utilizzate per finanziare i beni, i servizi e gli investimenti pubblici (a partire dalla sanità), i quali hanno una capacità redistributiva superiore rispetto al taglio delle imposte. Un obiettivo per noi assolutamente insostenibile che produrrà un ulteriore impoverimento del lavoro dipendente.

In ultimo segnaliamo la necessità di introdurre una fascia di decalage onde evitare che redditi di poco oltre i 35.000 euro lordi finiscano per percepire un netto inferiore e rischiare addirittura che incrementi salariali si risolvano in un effetto netto negativo.

In merito alle politiche tributarie la CGIL ha chiesto agli ultimi due Governi anche uno strumento complementare di “difesa automatica” dall’inflazione di salari e pensioni, ovvero l’indicizzazione automatica all’aumento del costo della vita delle detrazioni per redditi da lavoro e pensione, come meccanismo strutturale di recupero parziale del fiscal drag che, ad esempio, ha già eroso una parte della perequazione delle pensioni erogata nel 2023.

L’intervento sui fringe benefit evidenzia la scarsa attenzione verso il welfare pubblico. Non è, questo, un intervento che muova cifre elevate (142 milioni su anno) ma è assolutamente paradigmatico dell’impostazione di questo governo in relazione ai temi di politica economica e sociale. Intanto, dimostra una retorica in merito alle politiche per la famiglia che nei fatti si riduce a micro-interventi destinati a pochissimi contribuenti e cittadini (si vedano anche le minime modifiche all’Assegno Unico). La misura, poi, non ha nulla a che vedere con il concetto di welfare aziendale e favorisce ancora una volta l’idea che i buoni spesa o il rimborso di bollette possano essere considerati welfare e non salario, perciò in assenza di contribuzione quindi con un danno previdenziale. Di nuovo, al fine di limitare gli incrementi salariali, si favoriscono i frine benefit, appannaggio di pochi e concentrati sui redditi medio alti, a spese della fiscalità generale.

Aspetti Previdenziali
Infine, ci sembra necessario segnalare come si decida di finanziare alcuni degli interventi previsti attraverso l'ennesimo taglio al fondo destinato ai lavoratori precoci: nel 2023 pari a 6,6 milioni di euro, nel 2024 pari a 11,5 milioni, nel 2025 pari a 16,9 milioni di euro, nel 2026 pari a 17,3 milioni di euro, nel 2027 pari a 17,6 milioni di euro, nel 2028 pari a 18 milioni di euro e a decorrere dal 2029 pari a 18,4 milioni di euro.

Tagli che si aggiungono a quelli già effettuati dal Governo - sul fondo precoci - nell'ultima legge di bilancio, pari a 80 milioni di euro nel 2023, 90 milioni di euro nel 2024 e 120 milioni di euro nel 2025.

Ci sembra chiaro come questi interventi siano in totale contraddizione rispetto agli slogan e alle promesse elettorali (riforma previdenziale per superare la legge Monti/Fornero, introduzione di quota 41 per tutti, ecc....), ma in piena continuità con le scelte sbagliate della legge di bilancio: il Governo effettua un ulteriore intervento peggiorativo della situazione in essere al solo scopo di fare cassa sul capitolo previdenziale.

Infine, preoccupa l’allentamento previsto per omesso versamento delle ritenute previdenziali per importi fino a 10000 euro. Infatti, anziché introdurre norme volte alla lotta all’evasione contributiva, si decide di proseguire la strada contraria già imboccata nella legge di bilancio.

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