Il 14 settembre, sono state approvate dalla conferenza Stato/Regioni le intese sui requisiti minimi dei centri antiviolenza e case rifugio (Cav e Cr) e sui requisiti minimi dei centri per uomini autori di violenza (Cuav). Nonostante siano temi dibattuti presso il dipartimento Pari opportunità da quando esiste il confronto sul piano nazionale antiviolenza, l’Osservatorio è stato convocato solo il 13 settembre, senza possibilità di emendare i testi.

CAV e CR

Si mettono paletti importanti sulla comprovata esperienza dei centri: l’indicazione statutaria sulla loro esclusiva o prevalente specializzazione in contrasto o prevenzione della violenza maschile contro le donne, il lavoro per almeno cinque anni consecutivi in attività di contrasto alla violenza di genere, valutate anche in relazione alla consistenza percentuale delle risorse destinate in bilancio (nella precedente intesa questi parametri erano alternativi, ora i centri devono rispettare entrambi), la metodologia basata sulla relazione tra le donne, le varie professionalità garantite tanto nei centri che in casa rifugio sia per le donne che per eventuali minori. Oltre, ovviamente, a definire l’apertura minima, la reperibilità telefonica h24 attraverso il servizio del 1522, l’interazione con le forze dell’ordine e la rete dei servizi territoriali, i requisiti minimi per gli immobili che ospitano sia i centri che le case rifugio.
Come Cgil, insieme alle reti dei centri antiviolenza presenti nell’Osservatorio, abbiamo espresso un giudizio positivo sulla revisione dell’intesa perché accoglieva gran parte delle richieste, soprattutto nella volontà di non vedere affidati i bandi pubblici ad associazioni senza esperienza nel campo del contrasto alla violenza e, soprattutto, che si occupano di mediazione familiare e sostegno di coppia. Avremmo preferito che venisse maggiormente specificato che l’esperienza fosse sulla protezione delle donne e di eventuali minori perché, per come è scritta, anche i centri per uomini maltrattanti potrebbero accedere ai bandi.

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CUAV

L’intesa sui requisiti minimi dei centri per il recupero degli uomini maltrattanti definisce gli ambiti di intervento, le professionalità da garantire, gli orari minimi di apertura, le relazioni con i servizi territoriali e la creazione della rete, le caratteristiche degli immobili. Ricordiamo che il sostegno al loro sviluppo è previsto dalla Convenzione di Istanbul per evitare il rischio di recidiva - nei reati di violenza di genere si attesta oltre l’80% - con alcune indicazioni fondamentali: che il loro sostegno non levi fondi alle vittime e che il metodo da loro utilizzato sia certificato. Al potenziamento dei Cuav, il Governo ha destinato 9 milioni di euro, a fronte di un milione stanziato l’anno scorso. L’ingente aumento di uomini che ricorrono ai programmi di recupero è dovuto all’entrata in vigore del Codice Rosso, che prevede uno sconto di pena per i condannati per reati di violenza che seguono un percorso presso i Cuav. Si tratta del primo tentativo di dare una regolamentazione ai Centri di recupero per uomini violenti.
Accanto a ciò, un ulteriore fattore positivo consiste nel fatto che si impone alle associazioni che svolgono sia la funzione di centri antiviolenza che di centri per uomini violenti che abbiano sedi diverse e personale differente per le vittime e gli autori.
Come Cgil avevamo posto il problema perché in diverse sedi coesistevano le due realtà, ad esempio la Casa internazionale delle donne di Roma ospita al suo interno tre Cuav.
Sono molti gli elementi di criticità che riscontriamo in questa intesa e che abbiamo sottolineato nella riunione dell’Osservatorio presso il Dpo. Tra le proposte presentate, è stata accolta solo quella di togliere la dicitura, riportata in tre articoli, che “i Cuav si occupano della tutela di donne e minori vittime di violenza”, poiché questa è una funzione dei Cav e dell’autorità giudiziaria.
Il primo elemento di perplessità generale riguarda le numerose funzioni che gli vengono attribuite, ben oltre l’intento con cui sono nati. Tra queste, in particolare, la valutazione del rischio – ovvero la valutazione della possibilità di recidiva – che viene affidata ai Cuav, senza che sia adottato un metodo ufficiale e condiviso. Questa procedura, ad oggi affidata dai Tribunali ai servizi sociali, non ha un protocollo ufficiale in Italia, ma alcune procure utilizzano il “protocollo Sara”, importato da altre esperienze europee.
Come Cgil abbiamo chiesto con forza dall’inizio della discussione sul Piano nazionale antiviolenza fondi per creare nel pubblico le competenze per effettuare la valutazione del rischio, in alternativa o congiuntamente ai Cav, nelle forze di polizia e nei tribunali penali, civili e minorili attraverso la formazione di elenchi specializzati di consulenti tecnici d’ufficio (Ctu). La scelta di affidarla ai centri per uomini maltrattanti ci lascia profondamente perplessi.
Il fattore più discutibile è che la valutazione del rischio fatta dal Cuav avviene attraverso il “contatto partner”, ovvero il fatto che il centro contatta direttamente la donna vittima dell’uomo e, attraverso il suo coinvolgimento, valuta se i comportamenti lascino presagire una reiterazione del comportamento violento. A tal fine, ma temiamo non solo, i Cuav si doteranno di personale femminile specializzato nel sostegno alle donne vittime di violenza.
Come Cgil riteniamo profondamente sbagliato questo approccio per vari motivi. Il primo riguarda il fatto che la violenza di quell’uomo è una sua disfunzione relazionale, ogni tentativo di riportare tale comportamento all’interno di quella relazione ne diminuisce la responsabilità, attribuendone parte alla donna. Sempre in termini di responsabilizzazione della vittima, inoltre, riteniamo grave renderla partecipe dei progressi fatti dall’uomo, vista la difficoltà che si riscontrano nel convincere la donna a lasciare l’uomo violento. Sembra molto facile ricadere in quella mediazione familiare, anche se sulla carta viene esclusa, vietata dalla Convenzione di Istanbul. Non comprendiamo poi perché dovrebbe essere il Cuav a fare sostegno alle vittime di violenza, invece dei centri antiviolenza e delle reti sociali pubbliche. Insomma, si tratta di una pratica sbagliata in primis perché non tiene in considerazione la vittima, il suo vissuto e gli effetti che questa pratica potrebbe generare sulla sua uscita dalla violenza e sulla sua protezione fisica e psicologica. La donna deve dare il suo consenso una volta contattata dal Cuav, ma dire di no potrebbe avere conseguenze pesanti, soprattutto a livello legale. Nonostante le nostre richieste, il Governo ha preferito non specificare che il rifiuto della donna non sia usato in termini processuali per giudicarla ostativa o alienante in una causa per l’affidamento dei figli.
Ci preoccupa, inoltre, la presenza di educatori specializzati in sostegno alla genitorialità, anche questa funzione svolta dal servizio pubblico. Se è vero che il processo di responsabilizzazione dell’uomo violento passa inevitabilmente per la presa di coscienza anche degli effetti del suo agito su eventuali figli minori, altra cosa è affidare ai Cuav la valutazione e la ricostruzione delle competenze genitoriali, oggi in capo a tribunali e servizi sociali territoriali. Tra l’altro, anche questa potrebbe portare a valutazioni con il fine di utilizzarle nelle cause di affido. Non vorremmo che questa scelta sia fatta per affidare ai Cuav il compito di svolgere gli incontri protetti padre/minori che oggi sono affidati ai servizi sociali o a cooperative sociali, coordinate e controllate dai servizi.
Non capiamo, inoltre, la necessità che i Cuav si dotino, tra le figure professionali, anche di avvocati. Se non si tratta di un mero espediente per ottenere uno sconto di pena, perché un uomo violento dovrebbe avere bisogno di assistenza legale nel luogo in cui va per acquisire consapevolezza dei suoi problemi? Oppure sono avvocati civilisti esperti in mediazione familiare?
L’operazione fatta sembra essere fortemente finalizzata solo ai fini processuali. Per il penale ai fini dello sconto di pena e per il civile - vero punto critico in questo Paese – ai fini dell’affido dei minori.
Sempre sulle figure professionali, l’intesa è vaga sull’esperienza dei professionisti che dovrebbero supportare psicologicamente le vittime e sulle loro qualifiche.
Inoltre, nulla si dice di verifica o certificazione del metodo di recupero utilizzato, così come previsto dalla Convenzione di Istanbul. Come Cgil avevamo chiesto a più riprese l’applicazione della legge, con un ente certificatore terzo.
In generale rimaniamo profondamente convinti dell’importanza del lavoro di rete tra tutti gli attori che operano nel contrasto alla violenza maschile contro le donne, ma anche del fatto che questa rete abbia bisogno di un ruolo forte di coordinamento del pubblico, adeguatamente rafforzato e formato.
Infine, la preoccupazione maggiore che esprimiamo come sindacato è che si pensi ai Cuav, in prospettiva, come ad un centro polifunzionale per autori e vittime, che arrivi anche a superare il servizio pubblico e i centri antiviolenza.
Proprio per questo, insieme alle reti dei Cav e alle associazioni delle donne presenti all’Osservatorio, nei prossimi giorni chiederemo un incontro urgente al Dpo per chiedere la modifica dell’intesa sui Cuav.

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