Nella giornata di oggi è stata depositata la sentenza della Corte costituzionale n. 218 sulla legittimità costituzionale dell'articolo 177 del decreto legislativo n.50/2016, nonché dell’art. 1, comma 1, lettera iii), della legge 28 gennaio 2016, n. 11.

Le norme in questione obbligavano i titolari delle concessioni già in essere, non assegnate con la formula della finanza di progetto o con procedure a evidenza pubblica, a esternalizzare, mediante affidamenti a terzi con procedura di evidenza pubblica, l’80 per cento dei contratti di lavori, servizi e forniture, relativi alle concessioni di importo pari o superiore a 150.000 euro, nonché di realizzare la restante parte di tali attività tramite società in house o società controllate o collegate ovvero operatori individuati mediante procedura ad evidenza pubblica, anche di tipo semplificato. Questa previsione, la cui scadenza è stata prorogata più volte nel corso di questi anni (l'ultima proroga, dopo le nostre iniziative di mobilitazione, ha portato la scadenza al 31 dicembre 2022), se attuata avrebbe generato un terremoto nei settori interessati sia sul piano della garanzia di servizi fondamentali, sia sul piano occupazionale.

La sentenza chiude finalmente una vicenda controversa che ha generato profonda incertezza in settori assolutamente rilevanti, e lo fa sulla base della violazione degli articoli 3 e 41 della Costituzione.

Infatti, l'articolo 177 introduce vincoli "alla piena esplicazione della libertà di iniziativa economica" che "non consistono in misure che, al fine di assicurarne l’utilità o i fini sociali, limitano il normale dispiegarsi di tale libertà in un ambiente di libera concorrenza tra imprese, ma sono costituiti da misure espressamente dirette a favorire l’apertura alla concorrenza, attraverso la restituzione al mercato di segmenti di attività ad esso sottratti, in quanto oggetto di concessioni a suo tempo affidate senza gara alle imprese concessionarie". Un tentativo, in sostanza, di favorire la concorrenza limitando la libertà d'impresa. Non si contesta quindi la possibilità per il legislatore di
intervenire con l'obiettivo di tutelare la concorrenza, ma la ragionevolezza dell'intervento e l'assenza di considerazione di tutti gli interessi coinvolti.

Secondo la Corte, l'obbligo di esternalizzazione si sarebbe tradotto nell’impossibilità per l’imprenditore concessionario di conservare qualsiasi attività operativa trasformando la natura stessa della sua attività imprenditoriale in una stazione appaltante. La Corte precisa, inoltre, che l’interesse dei concessionari va anche al di là dell’impresa e delle sue sorti. Vi sono interessi che non sono stati minimamente considerati dal legislatore: vi è, infatti, da contemplare l’interesse del concedente, degli eventuali utenti del servizio, nonché del personale occupato nell’impresa.

Dall’illegittimità costituzionale dell’art. 177, comma 1, del d.lgs. n. 50 del 2016 deriva l’illegittimità costituzionale dei successivi commi 2 e 3, tema che apre un pericoloso vuoto legislativo sul versante delle concessioni autostradali.

Alla luce di questa sentenza che conferma le preoccupazioni che abbiamo sempre manifestato, diviene necessario ogni sforzo per evitare che l'eventuale definizione di un nuovo quadro di riferimento riproponga la filosofia che ha ispirato il legislatore le cui tracce possono leggersi nelle bozze di progetti di legge in cantiere. La salvaguardia di servizi fondamentali e dell'occupazione non può in alcun modo essere compromessa dalla logica della frammentazione che ha partorito l'articolo 177 e che questa sentenza ha accantonato.

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